martedì 18 aprile 2017

Vittorino Andreoli: Lettera a un insegnante

In un periodo in cui i docenti sono messi spesso sotto accusa e poco considerati a livello sociale, riportiamo Lettera a un insegnante, di Vittorino Andreoli.
Il brano, tratto da uno dei diversi saggi epistolari che l'autore ha pubblicato negli ultimi anni, si rivolge al docente, che occupa un ruolo centrale nella vita delle comunità, anche se troppo scarsamente riconosciuto e valorizzato. Invece è proprio sulla “sacralità” di questo ruolo che Vittorino Andreoli insiste, esortando a rivalutare un mestiere fondamentale per ogni società che voglia definirsi civilmente avanzata e che sappia portare i giovani entro un mondo vasto e comune.
E ora ti voglio parlare in questa mia lettera delle doti che fanno di te un buon insegnante e delle strategie perché tu possa espletare il tuo compito pienamente.
Credo che la prima qualità sia l'autorevolezza. Viene percepita come caratteristica della persona ed è certo l'insieme di molti elementi. L'autorevolezza dà credibilità: ti rende punto di riferimento e le tue affermazioni assumono il significato di «verità».
I tuoi allievi se ne accorgono e ne sono certi: di fronte a un mondo di menzogne, improvvisazioni, maschere per «apparire», vedono in te la serietà. L'autorevolezza diventa sicurezza. Non è riducibile a quanto si sa sulla materia, ma fa riferimento a una personalità che si presenta convinta e convincente, coerente, capace di svolgere il proprio ruolo e di manifestarlo anche nel silenzio, con la sola presenza. E persino nell'assenza, poiché l'insegnante viene introiettato e c'è anche quando non c'è e si può giungere a una presenza che dura una vita.
L'autorevolezza non è mai autoritarismo, che si veste della violenza e della minaccia del potere.
La qualità che segue subito dopo è la partecipazione alla scuola. Una presenza attiva, animata dalla voglia di dare, di fare sempre meglio senza mai chiudersi in una recita fredda, seguendo uno stanco copione che si ripete da anni. La si misura con il desiderio di andare a scuola, di entrare nell'aula o all'opposto con la paura persino di salire sulla cattedra.
La partecipazione è condizionata dal modo di pensare, dallo sforzo di percepire e far percepire qualsiasi argomento in maniera accattivante, interessante e aggiornata, dunque in una versione sempre nuova poiché nulla nelle discipline insegnate rimane immutato e l'insegnante deve coglierne le novità. Ma c'è una partecipazione che riguarda l'affettività e che esprime la voglia di trasmettere quello che uno sa e che ha raggiunto in tanti anni di approfondimenti.
Un sapere che si coniuga con la passione o almeno con il piacere.
Il piacere di insegnare, ecco un altro punto su cui interrogarsi: riesci a dare un senso alla tua vita proprio per il tuo ruolo, per il fatto di proporti ai tuoi allievi come insegnante e con un sapere specifico che però trasmette al tempo stesso la gioia di quella scelta? Oppure hai quell'aria assente che ti porta faticosamente a compiere un dovere che è però scialbo e senza piacere? Come fossi diventato frigido o frigida, come se ormai il piacere dei sensi fosse pura illusione o ricordo di momenti meno sfortunati. Sei un rassegnato?
Nessun lavoro, senza il gusto di compierlo, può risultare gratificante e dunque efficace. Vale quindi il principio che il piacere con cui svolgi il tuo ruolo di insegnante è proporzionato alla sua efficacia e quindi al gradimento della classe che lo dimostrerà stando attenta e appassionandosi alla tua materia poiché vi sente dentro la tua personalità. Altrimenti il tuo competitore diventerà il computer che è disanimato, mentre tu l'anima ce l'hai: è la caratteristica che differenzierà sempre l'uomo dalle macchine.